| Da uomo brutale e di cantiere quale io sono non perderò tempo a fare i complimenti sulla eleganza e sensibilità del progetto etc. etc. blablabla.
Vengo al punto e chiedo: si sta immaginando il magazzino di una istituzione museale già esistente e la cui consistenza fosse accertata a priori e fondamentalmente consolidata e stabile (il patrimonio di quel Museo è quello, le nuove acquisizioni sono una eventualità del tutto marginale) oppure si sta immaginando una struttura che dovrebbe servire ad un territorio nel quale la tutela archeologica (e la valorizzazione, magari anche) è pienamente in corso?
Secondo me questa considerazione meriterebbe una premessa metodologica esplicitata in maniera molto chiara.
Se si tratta di un sistema “chiuso” è ovviamente tutto più facile; sappiamo a priori che lo spazio è sufficiente (magari ci diamo un minimo di margine, ma lo possiamo stimare semplicemente a buon senso), sappiamo che l’ordine di stoccaggio dei materiali potrà alla fine considerarsi definitivo (nel senso che sarà pochissimo probabile il rischio di dover spostare un sacco di cose per fare largo in una posizione logica a dei nuovi arrivi), siamo a conoscenza a priori del rapporto percentuale fra materiali che comportano condizioni di stoccaggio specifiche in rapporto alla dimensione. Non è che anche così la progettazione sia cosa da poco, perché comunque si presenteranno decisioni progettuali alquanto importanti quando si scoprirà che la statua di marmo ad altezza d’uomo è imbragata in una struttura di tubolari al secondo piano, mentre il frammento del naso della medesima sta in un cassetto di un bancale al quindicesimo e il modesto (ma cronologicamente importantissimo) coccetto di ceramica trovato nella fondazione del suo basamento rischia di trovarsi in un sacchetto in un altro posto ancora, per non parlare dell’eventuale moneta che starebbe addirittura un un'altra ala dell’edificio (ma questo purtroppo è normale in Archeologia: purtroppo le monete spariscono subito dai contesti, normale ma non auspicabile). Però a parte il dovere di richiamare in linea di principio la possibile criticità su questi argomenti ci sono professionalità specifiche che possiamo immaginare che verrebbero coinvolte in una fase di “progettazione esecutiva” e poi per forza in fase di allestimento e ad esse certi compiti sarebbero demandati
Nel caso invece di una struttura destinata a vivere con il proprio territorio e a ricevere le nuove acquisizioni provenienti dai nuovi scavi la faccenda mi pare un tantino più complicata.
Tanto per cominciare non mi viene in mente nessun territorio nel quale il rapporto percentuale quantità/dimensioni dei reperti provenienti da nuovi scavi possa avvicinarsi realmente allo schema a pag. 16. I reperti di piccole dimensioni mi sembrano assolutamente sottodimensionati rispetto all’esperienza del mondo reale.
Anche il principio di dividere i reperti sulla base del materiale di cui sono fatti non mi sembra una grande idea se pensiamo a nuove acquisizioni che arriverebbero ordinate secondo contesti stratigrafici di provenienza (nei quali il valore storico ed il dato scientifico stanno fondamentalmente nella associazione fra loro dei reperti molto più dell’informazione di attestazione di ognuno preso singolarmente). Lo studioso che –con una copia della relazione di scavo in mano- arrivasse felice come una Pasqua a chiedere di esaminare i reperti della buchetta che sta sopra al mosaico tale, quelli del riempimento di asportazione del muro in fase col mosaico e quelli rinvenuti all’interno del massetto del mosaico stesso … secondo me si metterebbe subito a piangere scoprendo che tutto ciò è sparso di qua e di là. E comunque al terzo contesto che chiedesse di visionare gli inservienti (costretti ad andare a prendergli il frammento di metallo del contesto tale nel tal posto, quello di pietra del medesimo nel tal altro, quello di osso del medesimo nel tal altro ancora, ma poi di nuovo quello di ceramica dell’altro contesto . . .) lo manderebbero sonoramente a quel paese. La necessità è un’altra: scavo XYZ dell’anno ####, mi servono i contesti US da ### a ### con tutto quello che c’è, ceramica, osso, vetro, metallo, vaghi di collana, statue colossali crisoelefantine . . . Suggerirei anche di riconsiderare (spiegandolo con una bella nota e qualche riferimento bibliografico) sotto il profilo delle quantità prevedibili la differente incidenza che può esservi riguardo ai materiali organici in territori continentali centro-nord europei, in territori mediterranei asciutti e (anche lì, ma molto meno che nel centroeuropa) in casi particolarissimi di contesti umidi subacquei o semiumidi anche terrestri.
Quanto ai contenitori per i reperti , non mi convincono neanche un po’ le dimensioni.
Il presupposto che nello stesso bancale (ottima peraltro l’idea di standardizzare su base bancale, anche se non ho capito se è legato ad un sistema di movimentazione automatico orizzontale oppure verticale) ci debbano stare per forza oggetti di fra loro uguale dimensione mi sembra irrealistico.
Inoltre il cassetto 80x120 h15 mi sembra una unità di stoccaggio difficilmente compatibile con le movimentazioni dei reperti provenienti dallo scavo, mentre l’ideale sarebbe che i contesti di scavo arrivassero già secondo “colli” riconducibili esattamente al loro contenitore finale (anche se fossero da travasare, sarebbe evidentemente meglio che ciò avvenisse sulla base del confezionamento originale).
Nella prassi quotidiana di chi fa scavi archeologici oggi l’unità di misura del contenitore auspicabilmente non divisibile per i reperti è un sacchetto (più o meno traspirante o al contrario impermeabile e più o meno resistente) chiuso con un laccetto e dimensionalmente riconducibile di solito a misure grosso modo comprese tra i 10x20 cm e i 40x80 cm di forma orrendamente gonfia ed irregolare e di solito ospitato dentro cassette rettangolari (più o meno ignifughe e più o meno atossiche oltreché più o meno impilabili) del tipo di quelle da agricoltura quando non addirittura quelle da commercio di frutta e verdura. Soluzioni non ottimali, ma piuttosto diffuse (e comunque c’è di peggio). Questo è quello che un Progettista deve pensare che gli arrivi entro una struttura che accoglie i reperti dei nuovi scavi, salvo che egli stesso non sia in grado di proporre uno standard migliore.
Suggerirei caldamente una visita a magazzini “correnti” di qualche Soprintendenza o (di qualche Museo Locale affidatario da parte di una Soprintendenza) prima di procedere nella progettazione.
Concludo (restando molto volentieri interessato a tornare sull’argomento) dicendomi da solo il mio “ne sutor ultra crepidam”, ma la tentazione di dire la mia anche sulla struttura architettonica è troppo forte: un sistema a “torri” così coraggioso siamo sicuri che sia ingegneristicamente realizzabile secondo le linee agili e le distribuzioni delle cubature che sono previste? I pochissimi casi che io conosca di sistemi di stoccaggio del genere (non ad uso museale, peraltro) mi sembra abbiano uno sviluppo planimetrico molto maggiore e per carichi relativamente modesti (componenti industriali in acciaio e sim., mediamente di peso inferiore e più esattamente predeterminabile rispetto ai reperti archeologici) Qui i carichi sarebbero notevolissimi e inoltre il possesso di caratteristiche antisismiche mi sembra fondamentale. Tra l’altro il peso dei bancali (immaginando una cubatura di 120x80x150 zeppa di materiali archeologici) richiederebbe l’impiego di un sistema automatico mi immagino su rotaia, in ogni caso un bel vincolo per le strutture portanti dell’edificio). Non è che a far due calcoli si scoprirebbe che in certi piani emergerebbe un limite di carico massimo/minimo che snaturerebbe le destinazioni d’uso come sono state immaginate? Non sarebbe a quel punto più interessante concentrarsi su gli aspetti di standard a livello di bancale specificamente a fini archeologici e proporre la tecnologia di movimentazione automatica come risorsa flessibile facilmente adattabile a (quasi) qualunque involucro architettonico, compreso il riuso di grandi capannoni industriali esistenti?
Buon lavoro.
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