CITAZIONE (Belisarius @ 22/2/2020, 13:53)
Quello che mi chiedo è questo: come si può, con la scienza e le esperienze dell'archeologia, quindi della ricerca scientifica della stessa, oggi, dire: "gli archeologi studiano su quello che gli permettono di studiare". Quindi chi vede dietrologie, suppone che ogni scibile della conoscenza umana si basi su fondamenta falsificate, ergo qualsivoglia lavoro postumo a tale falsificazione, si orienti verso la falsificazione stessa, poiché il terreno è quello.
Riprendo con più calma da dove mi ero interrotto, per rispondere a questo interessante pensiero. Volente o nolente, a mio avviso Belisarius ha toccato alcune corde abbastanza sensibili nel campo dello studio dell'archeologia, che meritano una riflessione seria e onesta, per quanto magari poco piacevole.
In primo luogo, colpisce l'espressione "gli archeologi studiano su quello che gli permettono di studiare". E colpisce perché, purtroppo, almeno in alcuni casi, rispecchia una realtà tristemente verificata.
Chi si occupa di archeologia - e soprattutto chi si trova a dover studiare materiale archeologico - sa bene che, in questo settore, anche solo la possibilità di esaminare un determinato tipo di reperti (oppure un particolare lotto di materiali) non è sempre cosa semplice, né scontata. Nel nostro settore, più che in altri, esiste infatti un annoso problema, che è quello del materiale "in corso di studio": può capitare che un archeologo faccia richiesta per poter studiare uno o più reperti di proprietà statale, e che si senta rispondere dal responsabile che di quel materiale se ne sta già occupando qualcun altro. Ora, al di là del mio personalissimo parere (secondo cui, se un reperto è effettivamente un bene pubblico, non è giusto che sia inaccessibile per via del fatto che "c'è già qualcuno che se sta occupando"), quello che infastidisce è che, talvolta, questo
work in progress si allunghi per anni e anni, e di fatto ci siano materiali che restano inaccessibili per molto tempo, perché chi ha detto di volerli pubblicare (di solito, eminenti studiosi o funzionari statali) se la prende "con molto comodo", bloccando però in questo modo lo studio per tutti gli altri interessati.
Beninteso, questo è solo uno degli ostacoli che possono ritardare (se non bloccare, o comunque scoraggiare) la ricerca del singolo: ci sono poi la tipica e asfittica burocrazia italiana, i problemi di responsabilità e di tutela (soprattutto per quanto concerne gli spostamenti dei materiali fuori dai musei, oppure la loro campionatura al fine di effettuare analisi archeometriche), e ancora l'ottusità (quando non direttamente le antipatie personali) di certi dirigenti, che possono rendere la ricerca una vera odissea per il singolo archeologo...
Appurata l'esistenza del problema, il fantarcheologo che denuncia questo, seppur per certi versi a ragione, parte ovviamente da un presupposto sbagliato - ossia l'esistenza di un qualche "potere superiore", che avrebbe interesse a non far progredire la ricerca (per non portare alla scoperta di "verità scomode", che rischierebbero di alterare l'ordine precostituito...).
In secondo luogo, farei una riflessione anche sul problema delle "fondamenta falsificate della ricerca scientifica". Perché, pure in questo caso (anche se, fortunatamente, abbastanza di rado), può succedere che questo problema si verifichi davvero.
Quando ero alla scuola di specializzazione, durante una lezione sulla comunicazione nell'ambito dell'archeologia, una docente ha formulato un pensiero che mi ha dato molto da riflettere: nel mondo dell'archeologia succede spesso che quando uno studioso (magari un nome eminente del settore) pubblica un nuovo articolo, in molti finiscano per citarlo senza stare a porsi il problema se quello che leggono sia effettivamente corretto; con il tempo, citazione dopo citazione, quel contributo può poi diventare una "verità assoluta", difficile a quel punto (ma non impossibile) da smontare. E' un po' il vecchio - e odioso - principio dell'
ipse dixit: se l'ha detto un archeologo (e magari uno considerato un'autorità nel suo settore), deve essere sicuramente vero.
La mia risposta è: "non necessariamente".
Al netto di lauree, diplomi, master e Ph.D., è innanzitutto ovvio come tutti (anche i più bravi) possano commettere errori. Questo perché fare archeologia non è, per così dire, come fare matematica, e, seppure i dati siano di per sé oggettivi, l'interpretazione che se ne dà è invece sempre soggettiva, e sono molte le variabili che possono giocare a sfavore della sua correttezza (es. raccolta errata o parziale del campione da analizzare, erronea lettura dei risultati ottenuti, generalizzazione sopravvalutazione o sottovalutazione di un fenomeno a partire dalle informazioni disponibili etc.). Io di questi esempi ne ho trovati tanti nel mio percorso di formazione: fonti antiche tradotte in modo non corretto, letture iconografiche maldestramente banalizzate o generalizzate,
trend nell'archeologia della produzione tracciati a partire da pochissimi campioni (e sto parlando di testi scritti da nomi importanti del settore dell'archeologia classica). Fra le ultime, in ordine di tempo, c'è il contributo di van Rookhuijzen sulla rilettura dell'identificazione del Partenone di Atene, che a mio avviso contiene un gran numero di imprecisioni e forzature, ma che ha comunque trovato spazio sulle pagine dell'
American Journal of Archaeology (una delle riviste di settore più note, e pure
peer-reviewed...). Tralascio poi, volontariamente, i rarissimi (seppur attestati) casi di falsificazione operati in piena consapevolezza da studiosi accademici in cerca di gloria (come quello di Shin'ichi Fujimura, ricordato qualche giorno fa da Usékar in un altro topic).
Occorre allora riconoscere come, soprattutto per i singoli lettori, sia oggettivamente impossibile andare a verificare ogni volta, punto per punto, ogni singola nota e bibliografia di ogni contributo scientifico analizzato; ne consegue quindi che il più delle volte, anche in questo settore, bisogna un po' "fidarsi" di quello che si legge in certe monografie o articoli.
Ma allora, come si fa a evitare che un potenziale errore passi inosservato, e che conclusioni errate possano trasformarsi così in una base su cui andare a costruire altri studi altrettanto traballanti?
Io credo che le uniche armi che abbiamo risiedano, da un lato, nella ferrea osservanza del metodo scientifico e, dall'altro, nel buon uso del proprio senso critico e della propria esperienza. Queste due soluzioni (abbondantemente accompagnate da una sana dose di prudenza) sono, secondo me, le uniche
condiciones che possono davvero aiutare a giudicare la correttezza di un contributo scientifico, e a evitare di cadere nella trappola dell'
ipse dixit, che giustamente i fantarcheologi denunciano.
Badate bene, anche in questo caso non sto prendendo le parti dei fantarcheologi: il fantarcheologo, infatti, pur adottando talvolta alcuni rimandi bibliografici nei suoi contributi, è il primo che lavora senza affidarsi realmente al metodo scientifico (vuoi perché non lo conosce, oppure perché non ne riconosce il valore), e che non analizza i problemi con senso critico (perché generalmente non ha una reale e approfondita esperienza della materia che tratta, e quindi parla delle cose con estrema superficialità).
Tutto questo papiro per dire che, ok, è sempre bene affidarsi agli archeologi nelle questioni che riguardano l'archeologia; ma occorre avere anche un minimo di conoscenza del metodo scientifico e un po' di sano senso critico, senza procedere con un approccio troppo "positivista", che faccia sentire al sicuro "perché l'ha detto quello studioso famoso", o perché "l'ho letto su quella importante rivista".
L'
infallibilità non appartiene neppure agli archeologi