| Dopo un bel po' di tempo, rispolvero l'argomento con un lunghissimo intervento, frutto delle mie continue ricerche in merito.
Continuando a cercare notizie utili a capire come gli indigeni dell’area mesoamericana riuscissero a tagliare lastre dai blocchi di pietra verde grezza e segnatamente da quelli della dura giadeite e come gli artigiani della Costa Rica riuscissero e tagliare in due metà le asce di quel materiale, sono riuscito e trovare una plausibile spiegazione ragionando su quanto hanno scritto nelle loro relazioni, risalenti a poco dopo la Conquista, i cronisti Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés e Fray Bartolomé de las Casas. Oviedo y Valdés compì una serie di viaggi nei territori appena conquistati dagli Spagnoli, il primo nel 1514, nominato da re Ferdinando di Castilla Ispettore della fusione e della marcatura dell'oro nella Castilla del Oro, come gli spagnoli chiamavano i territori delle attuali Colombia e Venezuela, percorrendo in lungo e in largo la zona, a varie riprese. Al suo suo ritorno in Spagna nel 1546, venne nominato da Carlo V Cronista Oficiál de las Indias. Tornò quindi a Santo Domingo, dove morì all’età di 81 anni. Come Cronista Oficiál fu autore della monumentale Historia General y Natural de las Indias, iniziata attorno al 1520 e terminata nel 1535, però pubblicata solo nel 1851. Dato che la Historia era destinata direttamente al re di Spagna e la sua redazione completa tardava, pensò bene di scrivere anche il Sumario de la Natural Historia de las Indias, terminato forse prima del 1525 e pubblicato nel 1526. De las Casas, frate domenicano, dal dicembre 1543 al settembre 1550 fu vescovo del Chiapas, che al tempo comprendeva anche tutta la penisola dello Yucatán. Tra il 1527 e il 1559 scrisse l’altrettanto monumentale Historia de las Indias, pubblicata solo nel 1875. Vediamo cosa ci hanno lasciato scritto i due succitati cronisti. Di seguito, per ogni autore e opera, riporto prima i passi del testo originale nello spagnolo del XVI sec., poi la mia traduzione che a volte non è letterale, perché è necessario adattarla al linguaggio nostro contemporaneo. Inoltre, quanto è scritto in corsivo tra [ ] è una aggiunta, in un solo caso da parte dell’editore ed evindenziato nel testo originale da *, in tutti gli altri mia, per rendere più comprensibile il testo.
Dalla relazione di Gonazalo Fernàndez de Oviedo y Valdés Sumario de la Natural Historia de las Indias, Ciudad de México: Fondo de Cultura Económica, 1950, pag. 139, scritto nel 1525 e pubblicato nel 1526 a cura della Real Academia de la Historia, Madrid. “Lo que toqué de uso en los hilos de la cabuya y del henequén, que me ofrecí de especificar adelante, es así: de ciertas hojas de una yerba, que es de la manera de los lirios o espadaña, hacen estos hilos de cabuya o henequén, que todo es una cosa, excepto que el henequén es bien delgado y se hace de lo mejor de la materia, y es como el lino, y lo al* [*otro, nota dell’editore] es más basto, o en la diferencia es corno de cáñamo de cerro a lo otro más tosco, y la color es corno rubio, y alguno hay casi blanco. Con el henequén, que es lo más delgado de este hilo, cortan, si les dan lugar a los indios, unos grillos o una barra de hierro, en esta manera: como quien siega o asierra, mueven sobre el hierro que ha de ser cortado el hilo del henequén, tirando y aflojando, yendo y viniendo de una mano hacia otra, y echando arena muy menuda sobre el hilo en el lugar o parte que lo mueven, ludiendo en el hierro, y como se va rozando el hilo, asi lo van mejorando y poniendo del hilo que está sano lo que está por rozar; y de esta forma siegan un hierro, por grueso que sea, y lo cortan como si fuese una cosa tierna y muy apta para cortarse.” Nella traduzione che segue, è necessario tener presente che tratta del filo ricavato dell’henequén, Agave fourcroydes Lem., 1864, dalla quale ancor oggi si ricava la fibra di sisal, e di quello tratto dalla cabuya, Agave sisalana Perr., 1938, altra pianta dalla quale si ricava il sisal, due vegetali spontanei in tutta l’America centrale. Inoltre, Oviedo y Valdés chiama henequén e cabuya sia la pianta che il filo che se ne ricava.
“Ciò che ho accennato sui fili di cabuya e henequén, che ho offerto di specificare ulteriormente, è così: da certe foglie di erba, che sono fatte alla maniera di gigli o giunchi, fanno questi fili di cabuya o henequén, che tutto è una cosa [= sono uguali], tranne che l'henequén è molto sottile ed è fatto con la migliore materia, ed è come il lino, e il * [l'altro] è più grezzo, o detto diversamente è stelo di canapa a mucchi e più grossolano dell'altro, e il colore è biondo corno, e ce n’è qualcuno quasi bianco. Con [il filo tratto dal]l'henequén, che è il più sottile di questi fili, tagliano, se danno tempo agli indios, dei ceppi o una sbarra di ferro, in questo modo: come uno che miete o sega, muovono sul ferro che deve essere tagliato il filo henequén, tirando e allentando, andando e venendo da una lato all'altro, e buttando sabbia molto fine sul filo nel punto o dalla parte che lo muovono, sfregando il ferro e mentre il filo si sfilaccia, così lo vanno migliorando e mettendo il filo sano su ciò che stanno sfregando; e in questo modo segano un ferro, non importa quanto sia spesso, e lo tagliano come se fosse una cosa tenera e molto adatta per il taglio.”
Dalla relazione completa di Gonazalo Fernàndez de Oviedo y Valdés Historia General y Natural de las indias, Primera parte, Madrid, Imprenta de la Real Academia de la Historia, 1851( ma scritto tra il 1520 e il 1535), Libro VI, cap. XLIX, pp. 252 – 253. “Dice Plinio que la fabrica de la madera la inventò Dedalo, asì como la sierra para la aserrar. Mas otra manera de aserrar el hierro sa ha hallado en estas partes, y aunque sea una gruesa àncora (cosa maravillosa, dirè); pues quel indio con un hilo de algodon o de henequén o cabuya corta qualquier hierro, y esto le ha enseñado la necesidad para cortar los grillos o cadenas, en que algunos chripstianos los han aherrojado e puesto en prison. E hace averiguado que, dandoles tiempo, toman un hilo de los que hè dicho, è aquel muevenle sobre lo que quieren cortar, echando sobrel arena menuda, poco a poco, allì donde la cuerda lude: e asì como conienza a cortar e ser caliente el hierro, le tranzan como cortarian un nabo; e asì como se va rozando el hilo, lo mejoran encontinente, poniendolo sano. Cosa es probada e vista muchas veces en la Tierra Firme.” Mia traduzione “Dice Plinio che la lavorazione del legno la inventò Dedalo, così come la sega per segarlo. Ma un altro modo di segare il ferro è stato trovato da queste parti, e anche se [l’oggetto di ferro] è un'ancora spessa (cosa meravigliosa, dirò); perché l’indio con un filo di cotone o henequén o cabuya taglia qualsiasi ferro, e questo glielo ha insegnato la necessità di tagliare i ceppi o le catene, in cui alcuni cristiani hanno incatenato e messo in prigione. Ed è stato accertato che, dando loro il tempo, prendono un filo da quelli che ho detto, e quello lo muovono su ciò che vogliono tagliare, gettando della sabbia fine, a poco a poco, dove la corda sfrega: e mentre inizia a tagliare e essere caldo il ferro, lo tagliano come taglierebbero una rapa; e mentre il filo si consuma, lo migliorano costantemente, rendendolo sano. La cosa l’ho provata e vista molte volte sulla Tierra Firme.” [Oviedo scrive prima del 1526, anno della prima pubblicazione del suo lavoro, quando gli spagnoli chiamavano Tierra Firme tutta la zona che va dall’attuale Nicaragua fino ai confini che dividono le attuali Colombia e Venezuela dal Brasile]
Dalla medesima relazione, Libro VII, cap. X, pp 277 – 278 “La cabuya es una manera de hierba que quiere parecer en las hojas a los cardos o lirios, pero mas anchas e mas guesas hojas: son muy verdes, e en esto imitan los lirios, y tienen algunas espinas e quieren parecer en ellas a los cardos. El henequén es otra hierba que tambien es asì como cardo; mas las hojas son mas angostas y mas luengas que las de cabuya mucho. De lo uno y del otro se hace hilado y cuerdas harto recias y de buen parecer, puesto que el henequén es mejor e mas delgada hebra. Para labrarlo, toman los indios estas hojas y tienelas en los raodales de los rios o arroyos. Cargadas de piedras, como ahogan en la Castilla el lino; y despues que han estado asì en el agua algunos dias, secan estas hojas è tendenlas a enxugar al sol. Despues que estan enxutatas, quiebranlas, e con un palo a manera de espadar el calamo, hacen saltar la cortezaa, e aristas e queda la hebra de dentro de luengo a luengo a la hoja: e a manera de cerro juntalo e espandalo mas, e queda en rollo de cerro que parese lino muy blanco e muy lindo. De lo qual hacen cuerdas e sogas e cordones del gordor que quieren, asi de la cabuya como del henequén.” Mia traduzione “La cabuya è un tipo di erba le cui foglie vogliono apparire come [quelle dei] cardi o, ma foglie più larghe e spesse: sono molto verdi, e in questo imitano i gigli, e hanno delle spine e vogliono apparire come cardi. Henequén è un'altra erba che è anche come il cardo; ma le foglie sono molto più strette e più lunghe della cabuya. Dall'una e dall'altra si ottiene un filato e le corde sono molto forti e di bell'aspetto, anche se henequén è migliore e più sottile. Per farlo, gli indiani prendono queste foglie e le tengono sulle rive dei fiumi o dei corsi d'acqua. Caricate di pietre, come affogano in Castilla la biancheria; e dopo che sono stati così nell'acqua per alcuni giorni, asciugano queste foglie e le tengono ad asciugare al sole. Dopo che sono asciugate, le rompono e con un bastone come quello per scotolare la canapa, fanno saltare la corteccia, e gli steli e rimane la fibra all'interno in lungo e in largo della foglia: e ne fanno come un vello e lo spargono di più, e rimane come rotolo di fili che sembra lino molto bianco e molto bello. Di ciò ne fanno corde e funi e cordoni dello spessore che vogliono, così della cabuya come dell'henequén.” Poi prosegue, raccontando quanto già raccontato nel capitolo precedente, a proposito di come sono in grado di segare il ferro con un filo di questo materiale e sabbia molto fine.
Fray Bartolomé de las Casas scrisse sull’ identico uso di una corda di henequén, come lo osservò tra gli indios della zona del Río Belén, Panamà, quando essi fabbricavano i loro ami da pesca. Trascrivo da Historia de las Indias, Biblioteca Ayacucho, Caracas, 1986, cap. 26, pp. 99 – 100 “Péscanlos los indios de diversas maneras, que muestran en ellos industria y mejor ingenio: hacen muy buenas y grandes redes y anzuelos de hueso y conchas de tortugas, y porque les falta hierro, córtanlos con unos hilos de cierta especie de cáñamo que hay en estas Indias, que en esta Española llamaban cabuya, y otra más delicada, nequén, de la manera que los hacen cuentas cortan con una sierra de hierro delgada los huesos; y no hay hierro que de aquella manera no cortan.
Mia Traduzione “Gli indios lo pescano in vari modi, che mostrano in loro industria e grande ingegnosità: fanno reti e ami molto buoni e grandi di osso e gusci [= carapaci] di tartarughe, e poiché mancano di ferro, li tagliano con fili di un certo tipo di canapa che c'è in queste Indie, che in questa Hispaniola [primo nome di Santo Domingo] chiamavano cabuya, e un'altra più delicata, [he]nequén, nel modo in cui fanno conterie [grani per collane] tagliando le ossa con una sega di ferro sottile; e non c'è ferro che non tagliano in quel modo.”
A questo proposito, nota Olaf Holm, in Cortadura a Piola: una tecnica prehistorica, pubblicato a Guayaquil nel 1969 “Los cronistas no nos han legado referencias específicas al uso similar de las fibras de cabuya en el territorio ecuatoriano; al contrario, el Inca Garcilaso de la Vega dice en sus “Comentarios Reales”, que los indios del Perú “no supieron hazer una sierra”; el Inca no viajó por el territorio ecuatoriano, y la evidencia arqueológica demuestra que los indios ecuatorianos sí sabían “hacer una sierra”. Mia traduzione “I cronisti non ci hanno lasciato riferimenti specifici all'uso simile delle fibre di cabuya nel territorio ecuadoriano; al contrario, l'Inca Garcilaso de la Vega afferma nei suoi "Commenti reali" che gli indiani del Perù ‘non sapevano come realizzare una sega’; l'Inca [Garcilaso de la Vega] non viaggiò attraverso il territorio ecuadoriano e le prove archeologiche dimostrano che gli indios ecuadoriani sapevano ‘realizzare una sega’."
Cerco ora di mettere insieme quanto scritto da Oviedo y Valdés e de las Casas, cercando di chiarire come secondo me gli indios procedevano al taglio della giadeite con filo di henequén o cabuya e sabbia fine.
Per prima cosa, realizzavano una lunga corda a trefolo con le fibre della pianta, che sono molto sottili, lunghe e già di per sé resistenti, ragion per cui un trefolo a tre o cinque fili risulta anch’esso sottile e ancor più resistente delle singole fibre. Probabilmente arrotolavano la corda in una matassina o in un gomitolo, o magari arrotolata attorno a un piolo, per poterla maneggiare facilmente. Quindi, con una lama di ossidiana o una punta di quarzo, in corrispondenza della linea lungo la quale si doveva procedere al taglio, incidevano sulla pietra una linea relativamente poco profonda, in modo a poter “incoccarvi” la corda. Iniziavano a far scorrere avanti e indietro la corda e gettavano sulla linea di taglio sabbia fine, in modo da aggredire la pietra da tagliare. Probabilmente, la sabbia utilizzata veniva in precedenza selezionata, sia in base alla granulometria, che doveva essere molto fine, che alla composizione, che doveva essere soprattutto di grani di quarzo o forse di giadeite triturata. Inoltre, con tutta probabilità la corda era spalmata di resina, in modo da trattenere la sabbia. Mano a mano che il tratto di corda in uso si consumava, ne facevano scorrere un altro dalla matassina (o gomitolo o piolo), in modo da avere sempre a disposizione, sulla linea di taglio, un tratto di corda “sano”, come scrive Oviedo y Valdés.
I due cronisti, Oviedo e de las Casas, scrissero le rispettive cronache all’inizio del XVI sec.d.C., la tradizione della lavorazione del serpentino e della giadeite nella Mesoamerica risale agli Olmechi, che ne iniziarono la lavorazione addirittura nell’XI sec. a.C. Ma la tecnica descritta dai due cronisti era evidentemente ben sperimentata, quindi ben più antica del tempo in cui essi ne constatarono l’uso. Non è improbabile che risalga appunto a 2600 anni prima.
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