CITAZIONE (lino85 @ 11/3/2015, 02:03)
Mah... non saprei se la pragmaticità del mondo romano necessariamente coincida con scarso interesse verso discipline come la matematica e la filosofia, come a voler dire che i romani facevano i calcoli per costruire le case "a casaccio" senza un minimo di procedure matematiche, oppure componessero le legislazioni delle dodici tavole "senza pensarci" ovvero senza presupposti filosofici anche solo impliciti. L'idea che si studi la matematica o la filosofia fine a se stesse senza che siano motivazioni pratiche provenienti dalla vita a interessarsi mi sembra una visione un po' limitata di ciò che spinge a studiare le materie...
Purtroppo il tempo è poco, vedo intanto di buttare là un primo abbozzo di risposta.
Io credo che in questo tuo discorso ti sia (in parte) già risposto da solo. Prendo l'esempio delle leggi delle XII Tavole: che ci dovesse essere un presupposto di carattere 'filosofico' alla base della stesura di questo codice legislativo, è innegabile (fosse anche solo la non più totale e incondizionata subordinazione dei plebei ai patrizi, che deve essere nata, oltre che dal malcontento popolare, anche da un qualche tipo di riflessione più profonda). Ma più di lì non si va: non c'è, cioè (a che mi ricordi), una vera e propria speculazione sulla condizione umana, sul concetto di giustizia, sull'uguaglianza sociale etc., ma si tratta solo di un corpus di leggi che avevano il compito di regolamentare la vita sociale entro i limiti dell'antica città fondata da Romolo. In questo senso dico di aver l'impressione che a Roma (o almeno, nella primissima Roma) niente fosse 'fine a se stesso'.
Addirittura, potrei riportarti uno stralcio da un contributo di A. Cristofori (dal manuale di G. Gerace, A. Marcone,
Storia Romana, Firenze, Le Monnier, 2008, p. 65), in cui si afferma che:
CITAZIONE
Nelle XII tavole è ravvisabile un'influenza del diritto greco, che le fonti antiche giustificano ricordando come un'ambasceria si fosse recata da Roma ad Atene, nel 454 a.C., per studiare la legislazione di Solone. E' peraltro assai più probabile che questi elementi siano piuttosto venuti dai codici legislativi delle città greche dell'Italia meridionale e della Sicilia, dove avevano operato alcuni tra i primi e maggiori legislatori della grecità, come Zaleuco di Locri e Caronda di Catania.
Il romano (il romano più antico, si intende) non si dedicava alla filosofia perché era un uomo tradizionalmente più pragmatico. Una riprova in questo senso, secondo me, viene anche dal celebre episodio della cacciata dei filosofi greci (Carneade, Critolao e Diogene) da Roma, nel 155 a.C., su richiesta (guarda caso) di Marco Porcio Catone, il romano passato alla storia come 'il Censore' per eccellenza, e cioè il più integerrimo difensore del
mos maiorum, in un periodo storico in cui sempre più esponenti delle classi aristocratiche romane mostravano simpatia per la cultura greca (intesa soprattutto come produzione letteraria e artistica). Catone vedeva nella speculazione filosofica greca un grave pericolo per i giovani romani, poiché avrebbe potuto distoglierli dalla morigeratezza dei costumi degli antenati, dal lavoro e dall'impegno politico e militare, per portarli su una via completamente differente, di disinteresse per la cosa pubblica, in cui poteva essere ritenuto vero e valido tutto e al contempo il suo contrario (e Carneade, se non erro, era proprio un esponente della corrente filosofica dello Scetticismo).
Vorrei argomentare meglio altri punti, ma adesso devo scappare.
Vedrò di aggiungere qualcosa nei prossimi giorni (se non ci saranno ulteriori contributi in questo senso).