CITAZIONE (LAVORI ARCHEOLOGICI @ 25/6/2019, 15:48)
Permettimi.
Altroché se deve essere una questione di "sbocco sicuro", lo deve essere eccome.
Dove non sussiste uno "sbocco sicuro" significa -ad essere garbati, ma mi verrebbe in mente un'altra parola- che l'Università sta fallendo in partenza.
Semmai ognuno di noi potrebbe considerare in termini sfumatamente differenti cosa significhi "sbocco sicuro".
Per parte mia, come ho tentato altre volte di spiegare, lo intendo nel senso del compimento di un percorso di formazione e di acquisizione di conoscenze ai massimi livelli, nella prospettiva almeno potenziale del possibile svolgimento di un ruolo sociale preciso e di utilità sociale precisamente percepita, coerente con gli studi. [...] Non, sottolineo non, nel senso che l'Università debba garantire un lavoro o peggio ancora l'illusione di un "posto" di lavoro, ma nel senso che garantisca saldamente e "magistralmente" il massimo delle competenze teoriche riguardo alla materia, che da quel momento in poi non ci sia più altro bisogno di approfondire gli studi dal punto di vista della conoscenza ma solo di curarne l'applicazione dal punto di vista del metodo in particolari ambiti di dottorato o di specializzazione (e in futuro di aggiornamento).
Mi permetterai allora, a tua volta, di dissentire
Il problema, forse, è proprio nella sfumatura che si sceglie di dare a quello "sbocco sicuro".
Quando ho usato questa espressione, io non la intendevo nella tua accezione, ma nella effettiva possibilità di trovare, una volta concluso il percorso di formazione, un posto di lavoro che avesse almeno una qualche attinenza con gli studi affrontati.
Questa possibilità non è ovviamente, come dici anche tu, un qualcosa che deve essere "assicurato" dall'Università italiana (anche perché questo non è il compito precipuo di un ateneo): qui si parla di politiche del lavoro statali (che non necessariamente devono essere tradotte solo come "più concorsi e più posti di lavoro da statali"), e ancora di fondi, investimenti e agevolazioni fiscali. Per arrivare a questo, c'è tuttavia da individuare e definire, a monte, un ruolo e una utilità intrinseca per la figura dell'archeologo nella società attuale (e a questo scopo, ad esempio, oggi si stanno muovendo le sempre più diffuse - e discusse - ricerche sull'Archeologia pubblica).
Quest'ultimo passaggio lo sottolineo con una leggera vena polemica (che mi perdonerai), perché, se partiamo noi per primi con il dire che il mondo dovrebbe accorgersi che di noi "bene o male qualche volta potrebbe esserci bisogno", allora siamo noi i primi a bollarci come "non essenziali" alla vita di questo Paese (e quindi è inutile lamentarsi se poi sulla nostra causa lo Stato italiano non interviene mai seriamente). Certo, il lavoro dell'archeologo non è quello del medico, dell'ingegnere o dell'avvocato; allora forse deve cambiare (ed evolversi) il modo con cui la figura dell'archeologo e il suo ruolo sociale vengono intesi e percepiti, sia dallo Stato, sia dalla collettività (e, prima ancora, dagli archeologi stessi).
Vorrei poi fare qualche appunto anche in merito al discorso della preparazione universitaria, a cui hai fatto riferimento.
Personalmente, concordo poco anche il tipo di ateneo ideale che hai tratteggiato: secondo me, infatti, evocare un ateneo che fornisca "il massimo delle competenze teoriche", tale che "non ci sia più altro bisogno di approfondire gli studi dal punto di vista della conoscenza", si traduce in un auspicio estremamente difficile (per non dire impossibile) da concretizzare. E questo, essenzialmente, per due motivi:
1) non esiste un ateneo in grado di formare un archeologo a 360° su tutte le competenze (teoriche e pratiche) necessarie a svolgere il proprio mestiere;
2) è pressoché impossibile non avere più bisogno di approfondire gli studi dal punto di vista della conoscenza.
In primo luogo, tutti gli atenei hanno infatti, bene o male, una propria "tradizione di studi", che privilegia determinati settori e metodi di indagine rispetto ad altri, e che finisce quindi, inevitabilmente, per influenzare non solo la preparazione, ma anche la forma mentis del laureato che si appresta a sfornare. Ciò non significa che gli atenei italiani non siano validi nella formazione che offrono ai loro studenti (questo merito ci viene spesso riconosciuto all'estero): quello su cui peccano è semmai la sproporzione fra studio teorico e applicazione pratica della teoria (troppo scarsa la seconda, rispetto al primo - anche se è pur vero che, alla fine, più o meno ogni lavoro lo si impara davvero solo praticandolo).
In secondo luogo (se ho ben inteso il tuo discorso), auspicare a un livello di preparazione, in ambito universitario, tale da non aver più bisogno di approfondire ulteriormente gli studi mi pare un po' un'illusione con cui, almeno io, ho cercato di far pace da qualche anno. Un esempio: io mi occupo di Archeologia greca (me ne sono occupato sia in triennale, sia in magistrale, e ancora alla Scuola di Specializzazione), eppure ogni corso che ho fatto non è stato nuovo solo da un punto di vista dell'approccio e della metodologia, ma, talvolta, anche dell'argomento in sé. E questo perché gran parte delle civiltà del mondo antico (fra cui quella greca) può essere analizzata sotto un gran numero di aspetti - architettura, ceramica, coroplastica, oreficeria, scultura, bronzistica, glittica, topografia, contesti funerari etc. -, che tuttavia non ci sarà mai tempo per affrontare dettagliatamente nell'ambito dei corsi universitari (sempre più parcellizzati nella loro suddivisione in moduli).
CITAZIONE (LAVORI ARCHEOLOGICI @ 25/6/2019, 15:48)
Peggio ancora sarebbe un profilo marcatamente sbilanciato verso figure prive di ruolo sociale o dal ruolo sociale attualmente improbabile, quali certi master (ma finché si rimane nei master ancora ancora può passare, purché la laurea abbia una propria credibilità) oggi non resistono alla tentazione di proporre (le discipline forensi non in quanto tali, ma quando praticate troppo strettamente in dimensione archeologica potrebbero essere un esempio).
Questo è un altro problema ancora: il problema che tu sottolinei è certo reale, ma è pur vero che, in certi contesti, anche un'esperienza trasversale può aiutare più di un percorso "canonico", e comunque un master (non tutti eh) può sempre essere una buona occasione per andare ad approfondire un argomento o un settore del sapere, a cui l'università, per specifiche difficoltà, non riesce a provvedere.
CITAZIONE (LAVORI ARCHEOLOGICI @ 25/6/2019, 15:48)
Insomma, passi che poi si debba far fatica a trovare lavoro, ma non deve poter passare che alla fine possa capitare di avere un titolo ma non una competenza adeguata.
Vero, questo è un problema che si avverte anche fra specializzandi e dottorandi (molti colleghi lamentavano queste lacune nel percorso, e io stesso non ne sono stato certo esente). Ma questo, ripeto, si verifica per i problemi che ho elencato sopra, e perché una preparazione a tuttotondo è assai difficile da conseguire con i soli corsi universitari, per cui molto deve essere demandato anche alla libera iniziativa del singolo.