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1274 Kublay Khan tenta l'invasione del Giappone, Allestì una flotta di 4000 navi, i resti trovati grazie anche a una missione italiana

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view post Posted on 14/2/2024, 18:18
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Usékar - Usékol: lo shamano Talamanca

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Partiti da Venezia nel 1271, Marco Polo, suo padre e suo zio entrarono in Cina nel novembre 1274.

A quel tempo la Cina era dominata da genti di origine mongola, che nel 1215 l'avevano conquistata sotto il comando del famoso Gengis Khan, in mongolo Činggis Qa’an, cioè Feroce Imperatore.
Il regnante all'arrivo dei tre veneziani era suo nipote, Kublay Khan, in mongolo forse Qublai Qa’an, cioè Imperatore che si trasforma, il quale tentò due volte di conquistare anche il Giappone.

La prima volta fu proprio all'inizio del 1274, qualche mese prima dell'arrivo dei 3 veneziani.
A seguito del rifiuto da parte dello Shogun giapponese, nel 1268, di firmare un trattato di sottomissione alla Cina, richiesta ripetuta più volte nei 5 anni successivi, il Khan mise assieme una immensa flotta di barche, 1000 secondo le cronache cinesi, tutte mercantili, con a bordo 45.000 uomini (altre fonti parlano di 900 navi con 33.000 soldati).
Questa flotta fu inviata verso l’isola di Kyūshū, che per grandezza è la terza isola del Giappone ed è situata di fronte alle coste della Corea, allo scopo di tentarne la conquista. La flotta incappò in un violento tifone che distrusse almeno un terzo delle navi costringendo le restanti a tornare indietro, approdando in un porto coreano.

Il secondo tentativo Kublay Khan lo fece nel 1281: raccolse una flotta ancor più grande, composta da grosse giunche, forse appositamente costruite e ciascuna lunga oltre 70 metri.
Secondo lo Yuanshi (元史 Cronache degli Yuan), la grande spedizione comprendeva addirittura 4.400 imbarcazioni con a bordo 150 mila uomini. Qualche succinta notizia viene anche dal Milione di Marco Polo.
Al di là di quanto affermato nello Yanshi a proposito della quantità di navi e uomini imbarcati, parte della flotta si diresse nuovamente verso l’isola di Kyūshū e dai dati emersi entrò nella Baya di Imari, non lontano dall'attuale città giapponese di Fukuoka.

Notoriamente ogni estate in quella fascia di mare si verificano tifoni tropicali con venti che arrivano a superare abbondantemente i 230 km/h, che danno origine a un fenomeno chiamato kuro denryū, corrente nera.
La flotta cinese in arrivo fu investita da uno di questi tifoni, cosa che causò il naufragio della maggior parte delle navi e la perdita dei relativi equipaggi e dei soldati a bordo.
Poche navi riuscirono a salvarsi e tronare ai porti di partenza.

Negli anni '70 Mozai Torao, un ingegnere giapponese, pioniere dell’archeologia di ricerca, basandosi sulle antiche fonti scritte, pensò di aver identificato l’area del naufragio nella baia di Imari.
I pescatori del luogo gli mostrarono frammenti di ceramica, tirati a bordo delle loro barche con le reti, ma nessuno di questi pareva potersi collegare con il naufragio.
Nel 1974 un pescatore gli mostrò un sigillo bronzeo che su una faccia recava strane iscrizioni che risultarono essere state incise in lingua 'phags-pa, una specie di lingua franca creata da Kublai Khan nel 1276 al fine di unificare linguisticamente il suo sconfinato impero multietnico. Cosa ancor più interessante sul retro era riportata la traduzione in cinese e la data corrispondente al nostro 1279.
Quel sigillo doveva quindi riferirsi alla seconda spedizione di Kublai, perché divenne chiaro che si trattava di un Genkōsōain, cioè un sigillo di un ufficiale dell'armata mongola.

Le ricerche di Mozai Torao proseguirono, con scarsi fondi e senza successo, anche perché mancava a Torai l'esperienza nell'esplorazione archeologica subacquea.
Fu nel1981 che la notizia delle ricerche e dei risultati di Torai arrivò al giovane archeologo Hayashida Kenzo, fondatore in seguito dell’Asian Research Institute for Underwater Archaelogy (ARIUA).
Tuttavia, nonostante il maggiore budget a disposizione, le ricerche restarono infruttuose fino al 2006.

La cosa più interessante è che le ricerche ebbero una forte accelerazione e un sostanziale sviluppo grazie soprattutto al contributo degli archeologi subacquei italiani, a seguito di una fattiva collaborazione iniziata nel 2002, con la concessione di scavo nel comune di Somma Vesuviana a un gruppo composto di archeologi giapponesi dell'Università di Tokio e un gruppo di archeologi italiani dell'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

In seguito al rapporto di collaborazione istauratosi in quell'occasione, nel 2006 arrivò in quella baia un archeologo italiano dell’Università Orientale di Napoli, Daniele Petrella, grande esperto di storia e archeologia giapponese, presidente dell’International Research Institute for Archaelogy and Ethnology (IRIAE) il quale l'anno successivo chiamò in aiuto a Hayashida un gruppo di 14 studiosi italiani, comprendente archeologi classici e subacquei, mi limito a citare un solo nome molto noto agli archeologi in generale, a quelli subacquei in particolare: Sebastiano Tusa.

La indagini furono molto fruttuose, perché portarono alla individuazione e al recupero di alcune delle navi cinesi affondate e di una infinità di reperti, tra cui una serie di ceppi litici di ancora lignea tipici del periodo in cui avvenne quella tentata invasione.

Vengo ora alla descrizione di quanto si conosce dello svolgimento dell'episodio.

L'invasione del Giappone per Kublai era sì una volontà di conquista ma anche una mossa politica volta a ricompattare il suo immenso impero scosso da numerose crisi interne.
C'era però un ostacolo: il suo era un popolo di cavalieri delle steppe, senza alcuna esperienza come marinai.
Anche alla luce del fallimentare risultato del primo tentativo, era chiaro che invadere le isole del Sol Levante era un’impresa non facile da effettuare perché comportava l'attraversamento del mare per oltre 700 miglia nautiche e lo sbarco di un numeroso esercito su un territorio sconosciuto.
Si decise quindi di ricorrere principalmente a barche commerciali sequestrate ai sudditi cinesi, per lo più di giunche fluviali che si rivelarono poco adatte ad effettuare un così lungo tragitto in un mare aperto, tra l'altro caratterizzato da bassi fondali e spesso battuto da venti violenti.
La flotta fu divisa in 2 squadre, partite l’una da Quanzhou, nella Cina meridionale, l’altra da Happo, in Corea.

Tutto fu relativamente facile fino all'arrivo in vista della città di Hakata, l'odierna Fukuoka, quartier generale del governo nel Sud del Giappone. Qui si sarebbero dovuti ricongiungere le 2 squadre. Ma questo incontro non avvenne mai.

Mentre la squadra proveniente dalla Corea, arrivata per prima, sbarcò i soldati che vennero affrontati e respinti dai samurai dello Shogun, l’altra, partita dalla Cina, subì un rallentamento a seguito della morte di un ammiraglio.
Ignara della sconfitta dell'altra squadra, dato che nessuna notizia le giunse, la seconda squadra si diresse verso Takashima dove fu investita da un terribile tifone in prossimità della baia di Imari, di piccole dimensioni e con molti scogli affioranti, insufficiente ad ospitare forse più di 1000 navi mercantili che trasportavano forse quaranta/cinquantamila uomini stipati a bordo di imbarcazioni poco adatte a uno sbarco di massa.
Le imbarcazioni ebbero evidenti difficoltà di manovra, entrarono in collisione fra loro e finirono sugli scogli.

Non tutte le navi però colarono a picco.
Quelle che si salvarono furono attaccate dai samurai: si narra che salirono a bordo come diavoli infuriati e che marinai cinesi e soldati mongoli, già provati dal tifone, vennero decapitati dai guerrieri nipponici, tra l’altro invogliati dalla promessa dello Shogun di ricevere una quantità di terra proporzionale a quante teste avessero mozzate.

Nel corso delle ricerche archeologiche subacquee, coordinate dagli archeologi italiani che già avevano maturata grande esperienza in merito, furono recuperati dal mare migliaia di reperti lignei e addirittura il fasciame di parte di una nave: dopo il trattamento in acqua di mare e l' immersione in polimeri atto conservarlo, tutto questo materiale è oggi custodito nel Museo Storico ed Etnografico di Takashima.
Dal numero dei cippi d'ancora e delle ancore ritrovate è stato possibile stimare la presenza di almeno 260 imbarcazioni.
Tra i tanti reperti recuperati ci sono: vasellame integro e in pezzi, in ceramica e porcellana, mortai, forni, specchi, elmi e armi varie.
Cosa molto rara fu recuperata un’intera armatura di cuoio con le giunture di rame, perfettamente conservata perché riposta in uno scrigno sigillato con mastice.
Ma il ritrovamento più inatteso fu quello di bombe da lancio di terracotta riempite con polvere da sparo e schegge di ferro, arma che fino a quel momento si credeva fosse stata creata in Occidente circa 3 secoli dopo.

L'intervento di forti venti a carattere di tifone, che in entrambi i casi ha fortemente danneggiato le flotte cinesi, fece sorgere la leggenda dell'intervento a favore giapponese dell'esistenza di un terribile vento protettore delle isole nipponiche, il cui nome è scritto ini caratteri kanjii 神風 che nella solenne lingua giapponese di corte si pronuncia Shén Pū o Shin Pū, lett. dio vento ovvero vento divino, lettura banalizzata nel 1945 dagli occupanti statunitensi in kamikaze, che ha il medesimo significato, ma è "lettura" popolare, peggiorativa e in un certo senso squalificante, dei quei due kanjii.
Questo perché alla fine della II GM era chiamato 神風特別攻撃隊 shinpū tokubetsu kōgeki tai, cioè corpo di attacco speciale del vento divino, il corpo dei piloti della marina giapponese votati al suicidio.
 
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