Con un po' di tempo, ieri sera ho dato un'occhiata al capitolo di Manacorda che vi avevo segnalato, e devo dire che alcuni interessanti spunti di riflessione sono emersi da quelle pagine.
Il problema, come evidenziava anche Usèkar, è nato (e si è poi storicamente sviluppato) soprattutto in contesti coloniali, dove in passato gli archeologi europei si sono sentiti spesso in diritto di disseppellire e prelevare reperti e spoglie di popoli "diversi" da loro - e per questo percepiti come culturalmente inferiori - per riempire i propri musei, fino a quando, negli anni '70 del secolo scorso, non sono nati i primi movimenti dal basso, contrari a questa prassi (soprattutto in Nord America, Australia e in taluni ambienti ultraortodossi di Israele). C'è da dire che gli archeologi dei secoli passati non hanno quasi mai operato con quella che noi chiameremmo oggi "etica professionale", approfittandosi spesso dell'arretratezza economica di alcuni paesi e saccheggiandone letteralmente i beni archeologici per un "nobile fine", che doveva essere quello della conoscenza. Tuttavia, alla libertà della ricerca scientifica e alla necessità di divulgare il sapere si è andata opponendosi sempre più, nel tempo, la questione del diritto all'eredità culturale (talvolta perseguito anche attraverso vere e proprie battaglie legali).
L'esempio tratto dalla storia dell'archeologia americana è un po' diverso da quelli che avevamo in mente noi, ma può forse tornare ugualmente utile alla parentesi che abbiamo aperto: Manacorda riporta infatti il caso di uno scavo condotto a Manhattan nel 1984, per la realizzazione della nuova sede di un ente federale, che portò alla scoperta di un cimitero di circa 400 schiavi africani del XVIII secolo. Gli edifici ottocenteschi abbattuti nella zona si erano infatti rivelati eretti sopra una gran quantità di terra di riporto, che aveva preservato l'intero sito sepolcrale. Lo scavo, iniziato da "archeologi bianchi", fu interrotto per una serie di proteste della comunità afroamericana locale, che chiese (e ottenne) di far scavare l'intera area ad archeologi afroamericani, poiché questi, a detta loro, avrebbero potuto approcciarsi meglio a questo scavo, con il giusto rispetto per i resti mortali degli schiavi e senza fraintenderne o sminuirne il valore storico. Alla fine, laddove era sorto il cimitero, si ottenne il permesso per erigere anche un piccolo mausoleo dove riseppellire i resti scavati e i corredi recuperati dalle tombe (con l'eccezione di pochi cocci, non riferibili ad alcuna sepoltura).
L'episodio lascia l'autore con alcuni dubbi che io reputo molto importanti, per non dire fondamentali, e che in parte passano oltre questo episodio (dove comunque lo scavo andava fatto "per forza"). Se infatti, da un lato, Manacorda si chiede, in relazione al caso in oggetto, su che base scientifica si possa affermare che solo i discendenti di un determinato popolo possano scavare i resti dei propri antenati (ammesso e non concesso che un legame effettivo sia esistito fra i resti di questi individui e gli abitanti moderni di New York), dall'altro, in senso più ampio, lo studioso si chiede fino a che punto l'affetto filiale o l'affinità etnica e culturale possano prevalere sul diritto e sull'etica della ricerca scientifica. Il problema è quindi incentrato sul conflitto fra rito e conoscenza, e sulla prevalenza che il primo dovrebbe avere, nell'opinione di alcuni, sulla seconda (prevalenza che, se portata agli estremi, potrebbe portare tuttavia a una serie di deduzioni e conseguenze davvero bizzarre e paradossali).
La questione si fa sempre più complessa, e ci allontana forse dal topic iniziale... ma se volete un po' possiamo proseguire, perché l'argomento si fa affascinante. Sarebbe interessante anche chiedersi, per esempio, perché per il mondo dell'archeologia classica episodi di questo tipo non si registrino: eppure siamo tutti consci dell'eredità culturale che il mondo greco-romano ha lasciato alla moderna civiltà europea (dai fondamenti del diritto al concetto stesso di democrazia, dalle produzioni artistiche alle tecniche e agli stili architettonici, dalla produzione poetica, storica e scientifica alla filosofia etc.). Inoltre, se anche un legame genetico con gli antichi greci, etruschi e romani sembra non essere più rintracciabile nel DNA dei moderni europei, è pur vero che oggi esistono tutta una serie di movimenti "neopagani", che si richiamano direttamente ai culti e ai riti dell'antichità classica (un esempio è costituito dai "dodecateisti":
https://it.wikipedia.org/wiki/Ellenismo_(religione)Perché quindi non sembra essersi sviluppata in Occidente una sensibilità (e un'ostilità) altrettanto forte verso lo scavo di una stipe votiva o una necropoli di età classica? La questione si potrebbe poi applicare anche ai contesti medievali, dove lo scavo di una chiesa in rovina o di un cimitero cristiano viene solitamente effettuato senza che questo desti particolari rimostranze da parte dei fedeli locali e delle autorità religiose. Sta davvero tutta nel portato del pensiero e della storia della civiltà europea la ragione del "distacco emotivo" con cui ci approcciamo all'archeologia dei popoli che ci hanno preceduto sui nostri stessi territori?
P.s.
Usèkar intervieni pure per il link non funzionante (non capisco cosa sbaglio ogni volta...).
Edited by Usékar - 16/4/2020, 12:07